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#Oscars2020 – Made in Korea

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Quello che stanno scrivendo un po’ tutti, e cioè che si è trattata di un’edizione epocale che rimarrà negli annali, è vero. Per la prima volta nella storia, un film “straniero” ha vinto il premio come miglior film. In passato ci erano andati vicino una manciata di titoli, come La vita è bella di Roberto Benigni, La tigre e il dragone di Ang Lee, Roma di Alfonso Cuaròn, ma alla fine a spuntarla era sempre stato un film anglosassone o di filiazione hollywoodiana. Proprio Roma – vincitore lo scorso anno di tre statuette – era stato un case study in grado di mettere seriamente in crisi il Sistema. Distribuzione Netflix, 140’ di durata, Leone d’oro a Venezia, fotografia in bianco e nero, interamente parlato in lingua spagnola. La sua mancata vittoria a vantaggio di Green Book aveva suscitato reazioni controverse da parte della stampa e di alcuni addetti ai lavori. Si era parlato di discriminazione nei confronti di Netflix, ma anche di occasione mancata per portare al podio più alto un film non in lingua inglese. Se il film di Cuaròn nella scorsa edizione avesse preso l’Oscar, che ne sarebbe stato di Parasite? Avrebbe compiuto lo stesso percorso che ieri notte lo ha portato a conquistare quattro Academy Award (Film, Film Internazionale, Regia, Sceneggiatura originale)?

Probabilmente sì. Perché è un film nato sotto una buona stella sin dalla sua prima proiezione a Cannes, dove vinse la Palma d’oro e ricevette consensi critici quasi unanimi. Nel suo lavorare sul “genere”, fondendo black comedy e thriller è più “accessibile” rispetto alla media dei titoli in lingua straniera. La sua immediata fruibilità ha facilitato un passaparola tra gli spettatori che presto lo ha portato a incassare più di 165 milioni di dollari in tutto il mondo. Negli Stati Uniti è stato il più grande successo commerciale per il distributore Neon. 

A questo punto è anche necessario spezzare una lancia in favore dell’Academy, messa all’angolo, all’indomani dell’annuncio delle nomination, per la mancata candidatura a Greta Gerwig regista e per la grave disattenzione verso alcuni film cruciali della stagione (Uncut Gems, The Farewell, Us, Midsommar, Ritratto della giovane in fiamme). I premi a Parasite portano a compimento un percorso di cambiamento e apertura che gli Academy negli ultimi anni stanno portando avanti con non trascurabile velocità. Anche se quasi nessuno ne ha parlato, nella categoria dei documentari, vinta da American Factory, erano presenti ben quattro titoli diretti da donne. In modo ancor più lampante il premio a Bong Joon-ho come regista conferma una tradizione ormai decennale che vede i cineasti americani come veri e propri intrusi nel palmarés. Se escludiamo Damien Chazelle (La La Land), negli ultimi dieci anni la miglior regia è andate cinque volte al Messico (Del Toro, due Cuaròn, due Inarritu), all’Inghilterra (Tom Hooper), alla Francia (Michel Hazanavicius), a Taiwan (Ang Lee), alla Corea del Sud (Bong Joon-ho). Se poi aggiungiamo le nomination a Michael Haneke, Morten Tyldum, Lenny Abrahamson, Yorgos Lanthimos e Pawel Pawlikowski abbiamo statistiche che assomigliano più a un festival europeo che a una kermesse di Hollywood. E anche sulle discriminazioni di gender, senza sottovalutare un problema tangibile a livello industriale e culturale, è giusto ricordare che dal 2010 a oggi sono stati candidati film diretti da Kathryn Bigelow (due volte), Greta Gerwig (due volte), Ava DuVernay, Debra Granik, Lisa Cholodenko, Lone Scherfig, Agnieszka Holland, Susanne Bier, Nadine Labaki, Maren Ade, Ildikò Enyedi.

In questo quadro generale il sovvertimento del Sistema, attraverso l’affermazione di un film asiatico come Parasite, appare tutto tranne che inaspettato. Allora torniamo a Parasite. E qui è inutile negarlo, il film di Bong Joon-ho ha lasciato perplesse firme importanti della nostra redazione. Alcuni di noi hanno fatto fatica a digerirne lo schematismo, la scrittura controllata al millimetro, la “confezione”. È un film che vuole piacere. È un film furbo? Probabilmente sì. Eppure è attuale. Tra i nove film candidati era ad esempio l’unico, insieme a Storia di un matrimonio, a non essere ambientato nel passato ma al tempo presente. Sembrerebbe un dato di poco conto ma in un immaginario culturale sempre più condizionato dalla nostalgia e dalle ri-narrazioni della Storia, non lo è affatto. Il film di Bong ha saputo parlare al mondo di oggi. È riuscito a lavorare su coordinate iconografiche, sociali e politiche molto contemporanee. Ha intercettato “qualcosa nell’aria” per parafrasare il titolo italiano di un film di Olivier Assayas sul post ‘68. Ci sono film che quasi imprevedibilmente finiscono con lo sfondare muri. Forse è successo questo.

 

L’elenco completo dei premi

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